Passatempi

09.05.2025

Il testo è una raccolta di bozzetti eterogenei, movimentati e coloriti, percorsi da una folla di personaggi, evocati con caustica ironia, che si esibiscono sul palcoscenico della Parigi di fine Ottocento: non per nulla l'autore era figlio di attori, anche se non di grande successo, e frequentatore di teatri fin da ragazzino.

Quella di Léautaud non è la Ville Lumière, né la capitale delle belles lettres, ma la Parigi che, come tutte le grandi città, sottende un sottobosco umano che tira a campare alla meno peggio, contando i pochi franchi nelle tasche, guadagnati non di rado con espedienti e mezzi illeciti di diversa gravità.

Ed ecco allora il ritratto di una vecchia signora, un'antica bellezza che è stata l'amante di un diplomatico e che ancora ne attende il ritorno, riversando nel frattempo il suo affetto e le sue cure su alcuni animaletti.

L'incontro con un affascinante originale.

Un uomo d'una quarantina d'anni, il volto piuttosto fine e curato. Ai piedi, scarpe di vernice tutte sfondate, le cui suole erano tenute assieme al resto con lo spago. I calzoni, troppo corti, a quadretti neri e bianchi, erano ingrigiti dal tempo. Una giacchetta striminzita, lisa e stinta, stretta in vita, come quelle che indossavano i bellimbusti del 1880, con non so che fiore all'occhiello. Un solino di un candore immacolato. Per cravatta, un laccio da scarpe, o qualcosa del genere. In testa, una paglietta che in altri tempi dove-va essere stata bella. Infine, - la cosa piú notevole! aveva in mano l'asta a punta di un ombrello, che reggeva con tre dita, come un dandy il suo stick. Camminava a passo leggero, con l'aria disinvolta del damerino, dondolando il bastoncino con una mano, facendo dei gesti nello spazio con l'altra. Quali chimere lo occupavano per recitare in tal modo la parte dell'elegantone, vestito in quella foggia e cosí di buon mattino?

E ancora i Ricordi di uno scrivano del tempo in cui l'autore si guadagnava da vivere lavorando presso un avvocato attorno al cuo ufficio gravitavano usurai, piccoli truffatori, impiegati meschini. Le pagine di sferzante umorismo che descrivono una serata in un salotto letterario. Il balletto di rimpalli, al Mercure per l'incarico del necrologio di un collega dai dubbi meriti nel quale a tratti si rasenta l'umor nero. Il quadro sarcastico di una cittadina di vacanze e dei suoi frequentatori. Il resoconto divertito e sprezzante alcuni insulti ricevuti in seguito alle staffilate dei suoi articoli.

Non mancano tuttavia le pagine tenere, affettuose, ma prive di sdolcinature, dedicate alle sue bestiole, derelitte e maltrattate, che ha sottratto alla morte; o al ricordo dei vecchi, pochi amici, con i quali ha condiviso spesso momenti difficili, dividendo l'alloggio, i pochi guadagni e tante idee.

E infine una miscellanea di riflessioni e aforismi su disparati argomenti.

Una scrittura pulita, chiara, priva di fronzoli, ma fortemente evocativa. Io ne ho fatto una doppia lettura, nella lingua originale, e in traduzione per i passi che non mi erano chiari. Un'esperienza ricca di umanità e di stimoli culturali.


La bêtise n'est pas mon fort

Léautaud nel 1915 ritratto di Michele Catti

Cenni biografici su Paul Léautaud (1872-1956)

Vorrei tanto poter fare mia la perentoria affermazione di Monsieur Teste-Valery, ma in tutta sincerità non sono sicura di essere del tutto bêtisesente nonostante gli sforzi. Chi invece può fregiarsi appieno del titolo è Paul Léautaud, che ne ha pagato tutte le conseguenze con eroica coerenza. Rifiutare la bêtise, la stupidità conformista, o ciò che si crede che lo sia, richiede coraggio e sacrificio, e soprattutto sincerità. Egli ha agito sempre in totale autonomia di pensiero, lontano dagli ambienti letterari alla moda.

In quanto scrittore, sono sempre stato sordo all'ambizione, all'esibizione, alla reputazione, all'arricchimento…

Ha vissuto in una sorta di ascetica solitudine, temprato dall'indigenza patita nell' infanzia e nella giovinezza.

Per otto anni ho pranzato e cenato con formaggio da due soldi, un tozzo di pane, un bicchiere d'acqua e un sorso di caffè. Se è povertà, non lo sapevo, non ne ho sofferto.

Non si sentiva investito di alcuna missione letteraria.

Non intendo essere un folle, un profeta, un riformatore. Preferisco restare spiritoso, ironico, irridente.

Libero anche nella formazione culturale

Ho imparato da me, da me solo, senza nessuno, senza regole, privo di una direzione e di un maestro, a leggere ciò che mi piaceva, che mi attirava, che coincideva con la natura della mia mente.

Paul Léautaud nel 1920

Dopo aver fatto mille mestieri, nella Parigi lontana dalla grandeur, a 23 anni, viene assunto al Mercure de France. Acquista notorietà come critico teatrale con lo pseudonimo di Maurice Boissard; la sua penna, caustica e implacabile come un fioretto, non risparmia nessuno; nell'ambiente intellettuale ci si diverte alle sue intemperanze, fino a che non si è toccati da vicino. Altre riviste prestigiose se lo contendono, salvo buttarlo fuori alla prima stoccata, inferta senza riguardo per nessuno. Si ritira in una casa fuori città, dove vive con una gran quantità di cani e gatti, scrivendo, senza sosta dopo il lavoro.

Ho vissuto soltanto per scrivere. Ho sentito, sperimentato, visto, udito, provato sentimenti e conosciuto persone per scriverne. Ho preferito la scrittura alla felicità materiale, alla facile reputazione. Ho spesso sacrificato i piaceri del momento, i più segreti amori, la felicità di poche creature, per scrivere ciò che volevo scrivere. Di questo conservo la più profonda gioia.

Difficile separare l'uomo dallo scrittore - non solo perché la sua vita dura e difficile ne ha forgiato carattere e stile - ma anche perché la sua produzione consiste essenzialmente di scritti autobiografici e in un monumentale Journal che copre sessant'anni, diciotto volumi, seimila pagine con data di inizio pubblicazione 1954 e proseguimento in gran parte postumo.

Oggi, in tempi di servilismo endemico della critica, e del proliferare di scribacchini compiacenti con il pubblico di bocca buona per vendere, sfarfallanti sui social e in tv, uno come lui come minimo sarebbe lapidato di denunce e soffocato dalla mordacchia del politicamente corretto.

Le sue idee non sono sempre condivisibili, tutt'altro;  semplicistiche non di rado, pure invettive non argomentate. Per lui ateo, i cristiani erano di stupidità incurabile e monumentale; considerava la democrazia una vera tirannia che si volge rapidamente im disobbedienza e disordine; stigmatizzava la dittatura dei sindacati che sodomizzano il governo; e ancora era contro il suffragio universale, l'istruzione pubblica, il servizio militare, il diritto di sciopero, l'idea di patria. Durante la guerra disprezzò la Resistenza, simpatizzò per i tedeschi, ma anche per gli inglesi.

Autistico e solipsista, in lotta perpetua con il mondo, centrato onfalisticamente su se stesso:

Ho lasciato la scuola a 15 anni, mi sono fatto una cultura da solo. Come scrittore, mi sono perfezionato senza l'aiuto della democrazia. Al contrario, agisco e sento come un aristocratico. Il mio modo di pensare, di giudicare è aristocratico. Sono un antipedagogo, sono antipopolare. Forse sono un anarchico dello spirito.

e ciononostante un grande scrittore: nello stile, sempre improntato alla semplicità e alla clarté, rifuggente dal perfezionismo artificioso; nel contenuto che, pur da una prospettiva egotistica, spazia sul mondo, sprezzante, ma non moralistico. Uno scrittore così poco compiacente, scostante, antipatico, irritante, sarebbe apprezzato da pochi e, quel che più conta, poco vendibile, per questo l'editoria lo ignora; per procurarsi i suoi testi bisogna setacciare il mercato dell'usato.

(Gralli)