Bartleby, lo scrivano 1

03.07.2025

La parola al narratore
Chi è il protagonista di questo racconto? Che domanda! Lo dice il titolo, Bartleby, il copista legale, lo scrivano. La voce narrante, il suo datore di lavoro, un avvocato, lo presenta come il più strano che abbia mai visto o conosciuto, aggiungendo che Bartleby è, anzi fu, uno di quegli individui della cui vita non si riesce a sapere nulla. Tutto ciò suscita una certa curiosità nei lettori che non conoscono la storia, credo pochi in verità, poiché essa è notissima, anche per chi non ha letto il libro, me compresa, che proprio per questo non mi decidevo mai a leggerlo.

Il narratore, dopo queste considerazioni preliminari, si ferma per dare informazioni su se stesso, sul luogo dell'azione e sugli altri personaggi, due scrivani e un fattorino dodicenne. Bartleby entra in scena più tardi, è un neo assunto; con lui comincia la storia.
La trama è, all'apparenza, molto semplice: durante i primi giorni esegue scrupolosamente il suo lavoro,  

Dalla copertina dell'edizione Rusconi

ma poco alla volta rifiuta con garbata decisione, quasi con deferenza, con mite sfrontatezza, ogni incarico che gli viene richiesto, fino alla completa inattività. 

 [...] lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose: "Preferirei di no".
Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato, in assoluto silenzio, chiamando a raccolta le mie facoltà attonite. Subito mi venne da pensare che gli orecchi mi avessero ingannato, oppure che Bartleby avesse completamente frainteso quello che volevo. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse la risposta di prima: "Preferirei di no".
"Preferirei di no!", ripetei in un'eco, alzandomi di furia e attraversando la stanza d'un balzo. "Come sarebbe a dire? Le ha dato di volta il cervello? Su, mi aiuti a controllare questo foglio con l'originale - prenda", e glielo buttai.
"Preferirei di no", disse.
Lo fissai con aria risoluta. Il volto era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e tranquilli. Non una grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo anche minimo di disagio, di rabbia, di insofferenza, di impertinenza, in altre parole se ci fosse stato in lui qualcosa di normalmente umano, lo avrei cacciato con brutalità dal mio ufficio. Ma così come stavano le cose, tanto valeva che decidessi di buttar fuori della porta il pallido busto in gesso di Cicerone. Restai a fissarlo per qualche tempo, mentre continuava a scrivere, quindi mi rimisi alla scrivania. "è ben strano", pensai. "Che fare?". Ma il lavoro incalzava: conclusi di dimenticare intanto la faccenda riservandola a un attimo di calma in futuro...


Il suo "preferirei di no" (I would prefer not to) o locuzione sinonimica, secondo le traduzioni, diventa una litania surreale, incomprensibile per gli altri personaggi, soprattutto per il capo, al quale lo sconcerto per l'assurdità della faccenda inibisce qualsiasi sfogo di collera o azione punitiva. Non solo, il comportamento di Bartleby, che finisce anche per stabilirsi nell'ufficio come se fosse a casa sua, diventa per l'avvocato un'ossessione crescente, in un alternarsi di rabbia e profonda compassione che sconvolge la sua vita: neppure col trasferimento dell'ufficio in altri locali riesce a liberarsene; fino al tragico epilogo, che non rivelo, per quei pochi che non conoscono la storia.
I comuni lettori e i critici letterari, chiuso il libro, restano del pari perplessi, ma i secondi si avventurano in acrobatiche interpretazioni chiamando a sostegno le più varie scienze umane. La mia copia non contiene alcun commento, ma so di edizioni che ne riportano numerose decine.
Neppure io, si parva licet, ho saputo resistere alla tentazione di dire la mia, invocando l'ausilio della filosofia ermeneutica che, tradotta per le persone normali, fa: carta canta, ovvero spulcia attentamente il testo; non fare come i lettori frettolosi, i digitisti, che guardano il dito e non la luna.
Cominciamo dal titolo, anzi dal sottotitolo Una storia di Wall Street,* che non è una strada qualunque e già evoca un mondo, il centro economico e finanziario statunitense. In italiano potremmo dire via alle mura; in molte città ce ne sono, anche nella mia, e più d'una, in ricordo delle antiche fortificazioni di cui restano vestigia, più o meno ampie, o solo memoria storica.
Il muro è un elemento che torna, lo squallido ufficio si affaccia su due muri, uno chiaro e uno scuro, per ciascuno dei due lati che occupa nell'edificio, dimentichiamo le lussuose postazioni degli yuppie odierni: assomigliava un'enorme cisterna quadrata.
La modestia del luogo, per non dire lo squallore, non inganni: fra queste mura - interne esterne e storiche - ci si dedica a un lavoro discreto fra i titoli, le obbligazioni, le ipoteche di uomini abbienti. La ricchezza se ne sta nella tranquilla frescura di un angolino appartato, forse per questo i recensori del libro non l'hanno notata; ai tempi di Melville non era sfacciatamente ostentata come ai giorni nostri.
E veniamo all'avvocato così come egli stesso si presenta: convinto che nella vita la via facile è la migliore; che non ha mai consentito alla sua proverbialmente turbolenta professione di turbare la sua pace; che si dichiara fiero di aver lavorato per il compianto John Jacob Astor**, personaggio poco incline ai voli poetici, del quale ha goduto la stima e il cui nome, che adora ripetere, possiede un suono rotondo e sferico, tintinnante come l'oro. E ancora: dichiara di essere stato giudice presso l'Alta Corte di Equità, una carica non molto gravosa, ma piacevolmente remunerata; in seguito l'abrogazione simultanea e violenta di quella carica aveva cancellato le speranze del godimento vitalizio di quel beneficio. Sereno e imperturbabile l'avvocato afferma: di rado perdo la calma, ancor più di rado mi abbandono a una pericolosa indignazione davanti ai torti e agli oltraggi, quelli che riguardano lui, degli altri non dice.
A questo punto non posso non pensare a La lettera rubata di Poe: ciò che sta sotto gli occhi in bell'evidenza non viene visto, le recensioni non fanno, per quel che ho letto, cenno di questi elementi che sono fondamentali per la comprensione di tutta la storia.
 L'ufficio è una prigione nella quale dei miseri impiegati si rovinano la vista a copiare documenti, per ore e ore, per pochi centesimi a pagina.


L'avvocato, datore di lavoro di Bartleby, è uno Scrooge bonario, paternalista, ma sarà chiamato a dar conto del suo operare in maniera analoga a quello dickensiano.
Come spesso capita, libri brevi come questo sono di tale densità e profondità che danno luogo a riflessioni e rimandi pressoché infiniti. Per questo mi interrompo per ora, il seguito alla prossima puntata.
                                                                                                                                                              (Continua)
                                                          
*https://it.wikipedia.org/wiki/Wall_Street
**Commerciante di pellicce e uomo d'affari americano di origine tedesca (1763-1848), accumulò una grande fortuna (N. d. T) [nella copia in mio possesso]
                                                                                                                     (Gralli)