Il ballo degli ardenti
I più affezionati lettori di Edgar Allan Poe conoscono sicuramente Hop-Frog, uno dei suoi ultimi racconti, pubblicato nel 1849, l'anno della morte dello scrittore. Hop-Frog, che si può tradurre con Salta-Rospo o Salta-Ranocchia, è il buffone di un re crudele ma soprattutto goloso di burle, che, come i suoi sette ministri, vive per amor delle beffe.

Copertina di Edgar Allan Poe, "Skokan a jiné novely", Praga, 1919
Hop-Frog è nano e storpio, in grado di procedere solo con una camminata parentetica - qualcosa che stava a mezzo tra un balzo e una strascicata contorsione - che infinitamente dilettava, e naturalmente racconsolava, il re. Sebbene Hop-Frog, a motivo di quelle sue gambe stravolte, solo con gran pena e difficoltà potesse muoversi per una strada o in una stanza, la natura, a indennizzo delle gambe malformate, aveva dato alle sue braccia muscoli di prodigiosa forza, che lo mettevano in grado di eseguire imprese di mirabile destrezza, ogni qual volta avesse a che fare con alberi o corde o altre cose su cui arrampicarsi; ed allora assomigliava assai più ad uno scoiattolo, ad una scimmietta, che non ad un ranocchio. Non saprei dire con sicurezza da quale paese provenisse Hop-Frog. Una regione barbara, in ogni caso, mai sentita nominare, a enorme distanza dalla corte del nostro re. Uno dei suoi generali eternamente vittoriosi aveva mandato in dono al re Hop-Frog ed una ragazzetta poco meno nanesca di costui, ma squisitamente proporzionata, e mirabile nella danza; dopo aver strappato con la forza l'uno e l'altra alle loro case, in limitrofe province. In queste circostanze, non sarà da stupirsi che tra i due minuscoli prigionieri nascesse una calda dimestichezza; ed anzi, in breve erano divenuti sodali devotissimi.
Un giorno il re organizzò un grande ballo in maschera e, non sapendo come travestirsi, fece convocare il suo buffone. Dopo averlo costretto a ubriacarsi si spazientì perché questi non fornì immediatamente una nuova idea e, quando la sua amica Salterella intervenne per proteggerlo, le scaraventò in faccia una coppa colma di vino.

Arthur Rackham Hop-Frog 1935
Hop-Frog dissimulò a stento la rabbia e, come colto da una improvvisa ispirazione, propose al sovrano e ai suoi sette ministri di mascherarsi da oranghi e di spaventare così travestiti gli ospiti della festa. Il re accolse la proposta con entusiasmo e Hop-Frog, dopo averlo camuffato insieme ai suoi ministri con calzamaglie aderenti, catrame e lino, li legò insieme con una catena per rendere l'effetto ancora più verosimile. A mezzanotte i finti oranghi irruppero nel salone delle feste:
Il turbamento tra le maschere fu incredibile, e riempì di letizia il cuore del re. Come previsto, non pochi degli ospiti credettero che quelle creature d'aspetto selvaggio fossero veramente belve, anche se non proprio urang-utang. Molte dame svennero dal terrore; e se il re non avesse preso la precauzione di escludere ogni arma dalla sala, gli otto avrebbero potuto pagare con il sangue la loro buffonata. Ci fu un gran correre verso le porte; ma queste, per ordine del re, erano state chiuse a chiave non appena egli era entrato. Improvvisamente Hop-Frog afferrò la catena che legava gli otto travestiti da oranghi e la attaccò all'uncino cui di solito era appeso il candelabro centrale del salone. Subito una invisibile forza alzò la catena tanto quanto bastava a sollevare l'uncino fuori di portata e, di conseguenza, a stringere in un fascio, faccia a faccia, gli otto urang-utang. Le maschere, frattanto, si erano riprese in qualche misura dal loro turbamento; e cominciando a considerare quella faccenda come una piacevolezza ben architettata, presero a ridere clamorosamente all'impiccio in cui si trovavano gli scimmioni. […] Ed ecco, mentre la folla, incluse le scimmie, era in preda ad un convulso di risa, il buffone improvvisamente lanciò uno stridulo fischio; e la catena si sollevò violentemente per una decina di metri, trascinandosi appresso gli urang-utang che si dibattevano sgomenti, e tenendoli sospesi a mezz'aria tra il lucernario e il pavimento.
Sfruttando la sua destrezza nell'arrampicarsi, Hop-Frog li raggiunse e, dopo aver rivelato il suo furioso desiderio di vendetta per lo sgarbo fatto a Salterella, accostò una torcia al rivestimento di lino, che subito tutto s'accese di vivida fiamma. In meno di mezzo minuto gli otto urang-utang erano in preda alla furia del fuoco, in mezzo alle urla della folla che li guardava dal basso, inorridita, e incapace di prestare anche il minimo soccorso. […] Essendo il lino e il catrame cui aderiva altamente combustibili, il nano aveva appena finito il suo breve discorso, che la vendetta era compiuta. Otto cadaveri pendevano dalla catena, massa fetida, nera, orribile, irriconoscibile. Lo storpio scagliò la torcia verso quelle cose, agilmente si arrampicò fino al soffitto, scomparve passando per il lucernario.

James Ensor La vendetta di Hop-Frog 1896
Si suppone che Salterella, appostata sul tetto della sala, fosse complice del suo amico in quella sanguinosa vendetta, e che, insieme, fuggissero verso il loro paese; giacché nessuno più vide né l'uno né l'altra.
Così termina il racconto di Edgar Allan Poe ma pochi sanno che lo scrittore si era ispirato ad un fatto reale, che ci è stato tramandato da due cronisti della fine del XIV secolo: Jean Froissart (Les Chroniques) e il monaco di Saint Denis (Histoire de Charles VI). Nel 1380, dopo la morte di suo padre Carlo V di Francia, il dodicenne Carlo VI fu incoronato re, con i suoi quattro zii come reggenti, in attesa del raggiungimento della maggiore età. Nel 1387, il ventenne Carlo assunse il pieno controllo della monarchia ma, nel 1392, manifestò il primo di una lunga serie di attacchi di pazzia. In una calda giornata d'agosto, fuori da Le Mans, mentre guidava il suo esercito verso la Bretagna, Carlo sguainò la spada senza alcun preavviso e attaccò i suoi stessi cavalieri, tra cui il fratello, cui era molto legato, urlando Avanti contro i traditori. Desiderano consegnarmi al nemico. Prima di essere fermato uccise quattro uomini, dopodiché cadde in un coma che durò per quattro giorni.

La pazzia di Carlo VI (miniatura da "Les Chroniques" di Jean Froissart)
Nonostante le cure e un successivo miglioramento, Carlo continuò ad avere comportamenti bizzarri, credendo di essere fatto di vetro e correndo a volte nei corridoi del palazzo reale ululando come un lupo. Durante il periodo peggiore della malattia non era in grado di riconoscere sua moglie, Isabella di Baviera, e ne ordinava l'allontanamento quando entrava nella sua camera. È in questo contesto che il 28 gennaio 1393, Isabella organizzò un ballo in maschera per festeggiare le nuove nozze di Catherine de Fastaverin, una delle sue dame di compagnia favorite, già vedova due volte.
Ecco come racconta i fatti Barbara W. Tuchman, in Uno specchio lontano:
Quando una donna passava a nuove nozze, secondo certe tradizioni, il fatto veniva considerato un'occasione per combinare beffe e veniva spesso celebrato con una burlesca serenata in onore dei novelli sposi a base di licenziosità di ogni sorta, travestimenti, disordini e assordante frastuono di musica dissonante nonché fracasso di cimbali davanti alla camera nuziale. Benché fosse un'usanza «contraria a ogni decenza», […] re Carlo si era fatto convincere da amici dissoluti a partecipare alla mascherata. Sei giovani, tra i quali il re e Yvain, figlio illegittimo del conte di Foix, si erano travestiti da «selvaggi della foresta» con addosso panni strettamente avvolti intorno al corpo imbevuti di cera resinosa e di pece, su cui stava appiccicato uno strato di canapa a brandelli, che «li faceva apparire folti di pelo dalla testa ai piedi». Delle maschere coprivano loro completamente il volto, rendendone impossibile il riconoscimento. Consapevoli del rischio che correvano per via delle torce che riempivano le sale, avevano vietato a chiunque portasse una torcia di accedere alla sala durante il ballo. […] L'ideatore dello scherzo era un certo Huguet de Guisay, «il più crudele e insolente degli uomini», che pure godeva dei favori della cerchia reale proprio per i suoi modi irriguardosi: era uomo di «vita peccaminosa», «esperto nel corrompere i giovani e nell'avviarli sul sentiero della dissolutezza», e ostentava verso la gente comune e i poveri un'aria di odio e di disprezzo. Li chiamava cani, e con colpi di spada e di frusta amava costringerli ad abbaiare. Se un servo faceva qualcosa che gli riusciva sgradito, lo obbligava a stendersi a terra e mettendosi dietro in piedi gli vibrava colpi di sperone, e in risposta ai suoi gridi di dolore gli urlava: «Abbaia, cane!». Nel corso del ballo dei selvaggi, questi si diedero a far capriole davanti ai partecipanti alla festa, imitando gli ululati dei lupi, e facendo gesti osceni, mentre gli ospiti cercavano di scoprire la loro identità. Carlo era tutto intento a gesticolare e a molestare la quindicenne duchessa di Berry, quando Luigi d'Orléans e Filippo di Bar, reduci da bagordi in altri luoghi, fecero il loro ingresso nella sala con tanto di torce, malgrado il divieto. Forse per scoprire l'identità dei danzatori, o forse cercando deliberatamente il pericolo - i resoconti dell'episodio sono diversi - Luigi sollevò una torcia sopra i mostri che facevano capriole: all'improvviso una scintilla cadde sulla gamba di uno dei selvaggi, che prese fuoco, poi un altro si trovò avvolto dalle fiamme. La regina, la sola a sapere che Carlo faceva parte del gruppo, urlò e subito svenne. La duchessa di Berry, che aveva riconosciuto il re, gettò su di lui la sua gonna per proteggerlo dalle scintille, salvandogli così la vita. Presto la stanza risuonò dei gemiti e delle grida di orrore degli ospiti, e delle urla di dolore delle torce umane. Quanti cercarono di soffocare le fiamme e di togliere a forza i costumi alle vittime che si contorcevano riuscirono soltanto a ustionarsi gravemente. A parte il re, soltanto il sire di Nantouillet - che si tuffò in un grosso refrigeratore di vino colmo d'acqua - riuscì a scampare.

Il Ballo degli Ardenti (miniatura da "Les Chroniques" di Jean Froissart)
Il conte di Jojgny morì sul posto, ustionato a morte, mentre Yvain di Foix e Aimery Poitiers spirarono dopo due giorni di sofferenze atroci. Huguet de Guisay visse tre giorni di terribile agonia, maledicendo e insultando gli altri danzatori, i vivi e i morti, sino alla sua ultima ora. Quando la sua bara passò per le strade, la gente la salutò gridando: «Abbaia, cane!».
Mentre Barbara Tuchman segue il parere del monaco di Saint Denis nell'attribuire la colpa del tragico avvenimento a Huguet de Guisay, Jean Froissart accusa direttamente il fratello del re, Luigi I di Valois-Orléans:
E così la festa e le celebrazioni matrimoniali si conclusero con grande dolore. [Carlo] e [Isabella] non poterono fare nulla per rimediare. Dobbiamo accettare che non era colpa loro ma del duca di Orléans.
La reputazione di Orléans fu gravemente danneggiata dall'evento, ma già anni prima il duca era stato accusato di stregoneria perché si diceva che avesse assoldato un monaco apostata per infondere di magia demoniaca un anello, un pugnale e una spada. Il teologo Jean Petit testimoniò in seguito che Orléans praticava la stregoneria e che l'incendio durante la danza rappresentava un fallito tentativo di regicidio come rappresaglia per l'aggressione subita da Carlo nell'estate precedente. Nel 1407, il figlio di Filippo l'Ardito, Giovanni di Borgogna, fece assassinare suo cugino Orléans accusandolo di vizio, corruzione, stregoneria e una lunga lista di malefatte pubbliche e private; allo stesso tempo Isabella fu accusata di essere stata la sua amante.
I brani di Hop-Frog sono tratti da I racconti di Edgar Allan Poe nella traduzione di Giorgio Manganelli. Les Chroniques di Jean Froissart non sono state tradotte in italiano. Il testo originale è liberamente disponibile in internet su Gallica.