L'Utopia è un Umanesimo 1

02.06.2025

Due brevi saggi introduttivi a La città del sole di Tommaso Campanella e a Utopia di Thomas More.
È doveroso avvertire l'eventuale, futuro lettore, di non aspettarsi una descrizione o un commento dettagliato delle opere introdotte, ma solo riflessioni di tipo associativo, per così dire «vaganti», sull'essenza del concetto utopico. Notazioni originali, che aprono prospettive insolite di osservazione e si avvalgono di similitudini raffinate e suggestive. Una prosa fluente, veicolo di una limpida argomentazione a favore dell'utopia quale espressione della modernità, intesa come affrancamento del pensiero da qualsiasi autorità religiosa e politica, al di là di ogni vincolo cronologico.
Questo il tema portante di un'analisi che ha del prodigioso, capace di esprimere ampiezza e profondità di concetti in poche, dense frasi; ma soprattutto attraverso una fitta rete di associazioni e rimandi colti. Per questi motivi si rendono necessarie almeno due recensioni diverse, una per ciascuno dei saggi che costituiscono il libro.


Il primo esempio di pensiero moderno - che pone l'essere umano al centro, creatore autonomo dei propri valori e artefice del proprio destino - è stato quello della Grecia antica. Rimasto unico, dopo il tramonto di questa, ha realizzato la sua rinascita con l'Umanesimo, nell'Età Moderna propriamente detta.
Questa umanità nuova colloca hic et nunc, in questo mondo e nel presente, l'aspirazione universale alla felicità; diversamente, l'assetto teistico - di cui fanno parte gli stati teocratici e le monarchie per diritto divino - la fa rimpiangere in una precedente, e perduta, età dell'oro; e la fa sperare in un promesso paradiso ultraterreno, post mortem.
Tuttavia, questo modello della felicità presente, non è di facile realizzazione: paradossalmente, u-topia porta con sé l'ambiguità etimologica del suo nome, voluta da Tommaso Moro, inventore del termine: luogo buono, (eutopia) ma anche nessun luogo, dove la U assume valore privativo, è insomma l'isola che non c'è.

Come detto, l'uomo moderno, non più sottomesso ad una autorità trascendente, assume su di sé il compito, in odore di eresia, di elaborare la propria concezione del mondo. L'utopia è un tentativo di costruire la felicità in un concreto presente, senza alcun intervento soprannaturale:

Ma in questa sua creazione propria, l'uomo, per abitudine, per discepolismo, ha imitato Dio. In Utopia c'è ancora qualche cosa di sacro. Qualche cosa che non si deve toccare, che non si può raggiungere. C'è in Utopia qualche cosa di tabù.

L'azione umana imitando quella divina, pone l'utopia come società perfetta e quindi immodificabile; nemica della società aperta come direbbe Popper (ignoro se Savinio lo conoscesse).
La Città del Sole in realtà non è un'utopia poiché priva del requisito necessario: l'affrancamento dal divino; è di fatto uno stato teocratico; Campanella non è un umanista, Savinio per definire il suo pensiero parla di ellenofobia.
Di grande sottigliezza speculativa e dialettica è la similitudine secondo la quale l'Umanesimo trasforma l'architettura del mondo, segna la fine della forma architettonica della vita.

Ovvero

«Fine dell'architettura» va intesa con mente ambigua. L'Umanesimo segna la fine non dell'architettura, ma di «una» architettura: dall'architettura ispirata alla forma «tolemaica» dell'universo.
E ancora:
il senso architettonico così sviluppato negli italiani, non è se non l'espressione «plastica» di quel concetto teistico del mondo, cui gli italiani rimangono tenacemente fedeli.
Il concetto teistico si sviluppa nella verticalità: idealmente, nel pensiero, e concretamente, nella struttura urbanistica.
L'architettura di La città del Sole è l'effige, concreta e simbolica, della struttura piramidale dello stato teocratico.

Con la nascita dell'Umanesimo, invece, l'architettura dell'universo si spande in pianura. Lo si vede chiaramente nella mappa di Utopia, ma anche nell'architettura sacra della Grecia.
Il tempio ha la funzione di «ospitare» la divinità, ma non ne assume la forma, come la custodia del violino. Il dio greco è un dio girovago.

Il dio greco è passeggero. È questa la sua migliore qualità, il suo Sommo Bene. Se il dio greco non è teocrate, se lascia liberi gli uomini sulla terra, è merito in gran parte del suo amore del deambulare. Il dio greco può essere curioso dell'uomo, può essere amoroso, o geloso, o irato; può anche avere per un uomo un fatto personale, come Nettuno per Ulisse; può anche entrare in casi estremi in un uomo per perderlo; ma sono tutte operazioni «di passaggio» е direi «di passeggio». Dio non diventa teocrate «se non quando cessa di deambulare e diventa immobile». A imitazione di Dio, anche l'uomo immobile è pericoloso.

 Tempio di Nettuno a Paestum (450 a.C.) 

Il tempio cattolico è il calco della forma di Dio, la sua forma circolare e cupolare delimita il centro all'interno della quale sta Dio. Quello Greco, al contrario, rettangolare e vestito di angoli porta in direzioni diverse e prive di meta.

Il concetto dell'assenza di meta, di finalismo, è centrale nel pensiero di Savinio e nella sua arte e si rifà allo Stendhalismo.

[...] noi consideriamo un Umanesimo perfezionato e libero dal residuo divinismo che è la «meta della vita». Un modello di Umanesimo perfezionato noi lo troviamo nello Stendhalismo: nella vita senza meta e come forma di dilettantismo. [...] nello Stendhalismo vediamo riaccendersi lo spirito della Grecia presocratica, ossia della Grecia più greca, più libera. (Dobbiamo abituarci a considerare la Grecia socratica e scopritrice della coscienza come una Grecia "decadente"). La Grecia presocratica è dilettantesca e stendhaliana. Il suo dilettantismo, cioè a dire il suo disinteresse, la sua purezza di vita, la sua mancanza di finalismo si esprimono particolarmente nel panta rei di Eraclito, questo precursore di Enrico Beyle. Tutto è stendhaliano nella Grecia presocratica, tutto è dilettantesco, tutto è asimbolico e fine a se stesso; e quelle varie e contraddittorie spiegazioni della natura, sono la prima forma dei giochi speculativi che dilettano noi. Non lo spiegare la natura ferma la mente dell'uomo, la polarizza, l'abbrutisce: ma lo spiegarla «in un modo solo».

Questo saggio è stato pubblicato nel 1944, oggi noi, dopo ottantuno anni, possiamo, in tutta coscienza, dirci moderni, nel senso saviniano, cioè affrancati da una quale che sia forma teocratica?
Temo che non lo saremo mai, la vera utopia è proprio la modernitá, il raggiungimento dell'indipendenza di pensiero. 
(Continua)

(Gralli)