L'Utopia è un Umanesimo 2
Questo è il secondo, dei due brevi saggi di cui si compone il libro, in origine introduzione a Utopia di Tommaso Moro; per il primo, vedere qui.

Due scritti separati, sia pure di argomento analogo, inseriti come prefazione ai testi di una collana dedicata agli utopisti che Savinio curava, non necessariamente fruiti entrambi dai lettori. La scelta editoriale di unirli in un unico volume è particolarmente felice perché si tratta di due lavori che, letti insieme, costituiscono un tutto organico, avente come filo conduttore l'equivalenza utopia-umanesimo, posta da punti di osservazione inusitati, che ribaltano le correnti, ordinarie opinioni sull'argomento, secondo l'esplicita dichiarazione d'intenti dell'autore.
Molti credono che due e due fanno quattro non solo nelle operazioni aritmetiche, ma anche nelle operazioni umane.

Come già detto per il primo saggio, non ci si deve aspettare una descrizione o un commento dettagliato dell'opera di riferimento; l'analisi saviniana si muove nel più ampio contesto di origine della stessa, con particolare ammirazione alla figura dell'autore, e al concetto filosofico di utopia.
Abbiamo un sovrano, cattolico, Enrico VIII, che rifiuta l'autorità di Roma (limitiamoci al dato di fatto, senza approfondire le cause) dando vita ad una nuova Chiesa. Abbiamo un Lord Cancelliere, cattolico, che si rifiuta di riconoscere l'Atto di Supremazia del Sovrano sulla Chiesa d'Inghilterra. Alto tradimento: condanna a morte.
La storia dice che Moro morì per la sua fede, e poiché la fede di Tommaso Moro era la cattolica, si deduce da questo che Tommaso Moro morì per la fede cattolica.
Beatificato nel 1886, canonizzato nel 1935, proclamato patrono dei governanti e dei politici cattolici nel 2000, da papa Giovanni Paolo II. Non santo subito, la Chiesa era ancora prudente nell'esercizio della santificazione.

Tommaso Moro ritratto di Hans Holbein il Giovane 1527
Ma ecco che Savinio, con un'argomentazione, provocatoria, serrata e ineccepibile, viene a scompigliare le carte. Riprendendo la similitudine della verticalità, di cui si era già servito per descrivere l'assetto teocratico, cattolico in particolare, ribalta la situazione: il vero cattolico è il Sovrano, è il Cancelliere l'autentico protestante.
Il cattolicesimo è teocratico, il protestantesimo è tutto umano.
Questo perché il primo è dominato da un principio esterno, assoluto e supremo, questo perché il primo è dominato da un principio che cade dall'alto: Dio; il secondo, invece, nascendo dall'interno dell'uomo, si spande orizzontalmente ed è perciò autenticamente cristiano. Il cristianesimo primitivo infatti è una religione "protestante", un umanesimo:
ossia dimette la Chiesa come organizzazione sacerdotale, come ente governativo, e ritorna [...] a una religione squisitamente sentimentale e umana, nullamente teocratica. Il cristianesimo è propriamente una religione «senza dio» e dunque libera [...]
Una provocazione non solo verso una fede ateocratica, ma atea tout court, che riporta il cristianesimo al suo
significato primo, ossia di unione degli uomini, di «tutti gli uomini», la quale si sostituisce alle religioni chiuse, alle religioni teocratiche, alle religioni sovrumane, alle religioni «autoritarie», alle religioni «padronali», alle religioni «aristocratiche», alle religioni di Stato, alle religioni come espressioni del feudalismo, alle religioni come espressioni del capitalismo, alle religioni che tengono l'uomo in condizione di sommissione, di servilismo, di schiavitù; alle religioni che escludono la libertà dell'anima. Il cristianesimo sopprime il capitalismo religioso e instaura quanto a sé la «spirituale dittatura del proletariato».
Ma il cristianesimo così concepito esiste davvero? O non é anch'esso un'utopia in quanto umanesimo, e quindi ateo?
Conclusione, paradossale: Enrico VIII, che si ribella ad una entità teocratica, ne fonda una analoga e se ne proclama capo; il cattolico Tommaso Moro rifiutando di riconoscere questa autorità rivela di essere il vero protestante. Ma come si spiega la sua fedeltà alla Chiesa cattolica? E il fatto che dal 1980 è considerato dalla Chiesa Anglicana, martire della riforma protestante? Peccato che Savinio non possa darci risposta.

Hans Eworth, attribuito, da un originale di Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Enrico VIII,
Egli fa notare, non senza ironia, che in Utopia si trovano
le stesse qualità negative dell'animo protestante, ossia il quacquerismo, il vegetarinismo, il pallore del sangue, la mancanza di egoismo robusto.
Eppure Moro affronta il martirio per una fede contraria al suo cuore. Perché?
Moro, dice Savinio, resta fedele ad un'idea per principio, perché privo del machiavellismo che fa scegliere una strada diversa se la prima è diventata impraticabile; muore perché crede che la verità è una sola, ed è onesto restarle fedele.
Lo stendhalista Savinio, cultore della forma sublime del dilettantismo, soffre della morte assurda di quest'uomo eccellente che si sottopone al martirio contro il suo intimo sentire sentimentale ed intellettuale, che muore perché bisogna aver carattere. Molto dure le sue parole:
[...] domandate a me: vi dirò tutto il disprezzo che io ho per il «carattere» - ossia l'attaccamento inflessibile ai principii.
È con doloroso, affetto che tratteggia il ritratto di Moro, le sue umanissime qualità:
Eppure Moro non era un «carattere». Gli mancava la necessaria ristrettezza, la necessaria secchezza settaria. Gli mancava la necessaria scarsità delle idee. Moro non era tipo da fondatore di religioni. Non era tipo da capo di Stato. Non era tipo da capo. Di nessun genere. Non era uomo di autorità, di dominio. Non era dittatore. Era il contrario di questo tipo nefando e foriero di calamità. Era tollerantissimo e propenso al gioco mentale. Con molto diletto e in collaborazione col suo amico Erasmo da poco sbarcato in Inghilterra, Moro aveva tradotto Luciano in latino. Ma si vede che tradurre Luciano non basta. Si vede che la frequentazione di Luciano non gli aveva abbastanza sveltita la mente da fargli capire l'assurdità del «carattere».
Ma allora perché lui che non era un «carattere»
per tradizione, per abitudine, per inerzia, per «religione» rispettava, onorava, ammirava il «carattere»; impose questa falsa, questa assurda, questa nefanda qualità anche a se stesso?
Non c 'è risposta, solo un amaro epitaffio:
Nessuna vita, quanto la sua, fu sacrificata a un principio sbagliato. Che tristezza!
Savinio non si capacita, ma deve rabbiosamente ammettere che purtroppo
È vero che oggi ancora, che l'adattamento in natura è noto a tutti, il rispetto e l'ammirazione per il «carattere» non sono scemati in proporzione, ossia il rispetto e l'ammirazione per l'attaccamento inflessibile ai principii. La stupidità è immortale. Guardiamoci in giro: tra gli uomini, tra i popoli, tra le istituzioni, la qualità di stupido è la più sicura garanzia di longevità. (Continua)
(Gralli)

Alberto Savinio L'île des charmes