L'Utopia è un Umanesimo 4
«In Utopia la guerra e cioè il bellum dei Latini è profondamente abominata come cosa veramente belluina, sebbene nessuna belva ne usi tanto spesso come l'uomo».

Guernica, Pablo Picasso
L'incipit del capitolo dedicato alla guerra è una sorta di gioco di parole, una falsa etimologia già conosciuta in antico che fa derivare bellum da bellua, bestia feroce, quando invece si tratta di un'alterazione da duellum. Ciò offre il destro a Savinio di elogiare il senso dell'umorismo, di Moro e in generale, considerato appannaggio di coloro, popoli e individui, che hanno raggiunto la regione aerea dell'intelligenza.
Gli Utopiani considerano ingloriosa la guerra, quando tutti gli altri popoli saranno pervenuti a questa convinzione, la damnatio memoriae sarà implacabile: abbattimento di tutte le statue degli eroi guerrieri e cancellazione dai libri di storia di tutte le loro imprese. La cancel culture non è una novità.Il rifiuto utopiano della guerra non è aprioristico, è ammesso nei casi di invasione nemica, di tirannia, di soprusi, ma anche per vendetta e per punizione; per questo gli abitanti, maschi e femmine, si sottopongono agli opportuni addestramenti.
Savinio non si dilunga sul testo, ma ne prende spunto per le sue considerazioni, in particolare per deplorare la retorica bellicista, retaggio di un passato da non imitare.

Rimozione statua del generale Lee Virginia (fonte ilPost)
Resta a dire il modo come gli Utopiani fanno la guerra,
«Molto si gloriano gli Utopiani di aver vinto i nemici con arte o con inganno, e di ciò menano gran trionfo con pubblica ordinanza, e ne alzano il trofeo, come per sublime azione. Solo quando hanno vinto nella maniera con la quale nessun animale, eccetto l'uomo, riuscirebbe, cioè con la forza dell'ingegno, solo allora si vantano di esser riusciti virilmente e valorosamente nell'impresa. Dicono: gli orsi, i leoni, i cinghiali, i lupi, i cani, e le altre bestie si battono con le forze del corpo; ma come la maggior parte di esse ci vincono per la gagliardia e la ferocia, tutte sono a noi inferiori per l'ingegno e la ragione».
Savinio vede in ciò l'anticipazione delle strategie belliche di Inglesi e Americani contro la Germania
Che è guerra fatta soprattutto con i mezzi meccanici, col maggior risparmio di uomini, e senza retorica. Mentre i Tedeschi per parte loro fanno la guerra «di persona », con retorica, con «onore» di guerriero.
E pèrdono.

Come si è detto il volumetto, che dà luogo a tante articolate riflessioni, contiene le prefazioni alle utopie di Campanella e Moro, le quali a loro volta fanno parte di una collana dedicata a questo genere letterario
È stata intesa la ragione di questa collana di Utopie? È stato capito perché noi, oggi, abbiamo sentito l'utilità di rinnovare la lettura della Repubblica e delle Leggi di Platone, dell'Utopia di Tommaso Moro, della Città del Sole di Campanella, della Nova Atlantis di Francesco Bacone, delle altre Utopie?

In finale del secondo saggio, dopo aver trattato della concezione della guerra secondo il pensiero moreano, Savinio, domandandosi quale possa essere l'attualità delle utopie, apre il discorso con una serie di interrogativi che a ottant'anni di distanza (la seconda guerra mondiale era appena finita), conservano amara e tragica attualità.
Nemmeno questa guerra di cui oggi noi soffriamo i terribili effetti, nemmeno questa guerra, al pari di quella che l'ha preceduta, nemmeno questa guerra sembra che abbia a essere la tanto sospirata guerra «per la pace». I problemi che si agitano attualmente sono ancor troppo problemi di ieri e troppo poco problemi di domani, cioè a dire sono problemi prevalentemente ispirati tuttavia da sentimenti nazionalistici, da volontà imperialistiche, da velleità di dominio di alcuni popoli su altri. Anco non appare insomma la luce di un consorzio pacifico e laborioso tra i popoli dell'Europa ma le rivalità continuano, le ostilità, le gelosie, il nefando individualismo, senza contare le passioni crudissime che la guerra stessa ha accese, ossia l'odio, il rancore, la vendetta; e il dubbio continua soprattutto, l'incertezza, l'ignoranza di quello che dovrebbe essere, di quello che «dovrà» essere l'assetto politico e sociale di domani.

Dopo la Battaglia di Marignano, disegno di Urs Graf, 1521.
La riflessione seguente mi sembra discutibile.
Ma come arrestare d'altra parte l'opera profonda, l'opera feconda, l'opera «oscura» della guerra?... La guerra non attua generalmente quello che i guerrieri si ripromettono da essa e comunque tutti coloro che la «fanno», ma apre le porte a quello che alcuni uomini «non guerrieri» hanno pensato in silenzio durante il periodo che precede la guerra e durante la guerra stessa, e che senza la guerra non avrebbe trovato né modo né possibilità di attuarsi. Le guerre, in altre parole, «servono agli altri». La guerra del 1914-1918 non è servita né ai guerrieri né ai politici che l'hanno «fatta», ma è servita a Lenin e ai suoi compagni, i quali in mercé di quella hanno potuto abbattere la Russia zarista e fondare l'U.R.S.S., che è il solo risultato «positivo» della cosiddetta Grande Guerra.
Che certi cambiamenti politico-sociali abbiano bisogno della guerra per attuarsi, rivela una convinzione finalistica, difficilmente sostenibile, in contraddizione, peraltro, col pensiero anti teleologico, sempre proclamato, di Savinio. La Grande Guerra è stata un motivo contingente, non necessario, dell'abbattimento della Russia zarista e della fondazione dell'U.R.S.S.
Il termine positivo, sia pure virgolettato, sembra fuori luogo: non si discute sulla positività dell'abbattimento di una monarchia assoluta, oppressiva e crudele, ma sul fatto che anche le guerre "hanno conseguenze buone". Su come abbia poi agito il regime sovietico, nel bene e nel male, e quello ancora successivo che a sua volta lo ha abbattuto, e ancora in vigore, tocca agli storici ragionare, giudizio in corso, richiederà tempo e giusta distanza: un compito non invidiabile.
Azzardata, ma congruente con la precedente tesi delle conseguenze buone delle guerre, la previsione di ciò che accadrà, dopo la guerra, quella, per noi.
Del pari, [...] la guerra attuerà, [...] o per meglio dire, renderà possibile, faciliterà l'attuazione di ciò che hanno pensato e pensano in silenzio alcuni uomini; il quale pensiero è la rivoluzione del sistema politico e sociale fra i popoli dell'Europa, la soppressione dei vecchi e iniqui privilegi, la giustizia nel lavoro, la migliore salute dei corpi, la maggiore «apertura» delle menti, i costumi meglio intonati alla specie, alle necessità e al «colore» del nostro tempo, l'abolizione delle superstizioni e dei pregiudizi che ostacolano ancora e inveleniscono i rapporti fra gli uomini, ossia, in due parole, il «progresso umano». Si tratta, insomma, di attuare «praticamente», ciò che alcuni uomini hanno soltanto pensato - correggendolo magari e perfezionandolo - ossia attuare le Utopie e trasformare Utopia in Pantacotopia.

Dopo ottant'anni quanto di tutto ciò si è realizzato?
E poiché le Utopie, come per un comune accordo, dalle repubbliche sognate da Platone e da Zenone fino alla Utopia Moderna di Wells, si fondano tutte sul possesso in comune degli averi ossia su quello che è il principio fondamentale del Comunismo, le Utopie, e particolarmente questa di Tommaso Moro, che è come la più legittima di tutte e quella che si merita il maggior rispetto, e nella quale il senso comunista non ha subito ancora quel «restringimento» al solo fatto economico che più tardi gli farà subire Carlo Marx, potrà servire agli uomini di buona volontà da modello e da guida; o, se non altro, da incoraggiamento ideale.
Possesso in comune degli averi, in una visione che trascende la stretta considerazione economica: un sogno utopico generoso, ma l'essere umano può, non dico realizzarlo, ma avvicinarsigli un poco, almeno eliminando le disparità più gravi che ancora esistono in questa era di grandi conquiste tecnologiche?