Sotto il nome del cardinale

27.04.2025

Ci sono scrittori che nascondono sotto un nom de plume il proprio, esagerando talvolta, come Stendhal o Voltaire che ne ebbero rispettivamente 171 e 160; per non parlare di Pessoa e dei suoi eteronimi, veri e propri alter ego, scrittori che definire immaginari è riduttivo, data la "corposa" personalità letteraria e la parallela attività con l'ortonimo che li ha generati.

Al polo opposto ci sono coloro che coltivano la sublime ambizione di vedere il proprio nome, quello vero, scritto su un libro immortale, capace di dar loro lustro e fama, magari sfidando i secoli. Questo l'argomento del libro, ma non è una storia di finzione. È una sorta di giallo, storico, raffinatissimo, condotto con rigorosa acribia documentale che assume l'andamento narrativo di un madrigale a più voci, costringendo il lettore a spostare la propria attenzione dall'uno all'altro testimone, informato dei fatti (?), in taluni casi ciascuno discorde dall'altro e per giunta deponente in secoli diversi. Un testo breve, ma impegnativo, di grande godimento estetico e intellettuale tuttavia, e come ogni giallo che si rispetti, rivelatore del colpevole inaspettato, ma soprattutto del crimine che, contrariamente a quanto accade nei classici di questo genere letterario, resta ignoto fino al disvelamento finale.

Questo il personaggio principale, l'accusato: Giuseppe Ripamonti (1573-1643), sacerdote, storico, fine latinista. Autore di una storia di Milano, della Chiesa milanese, di una cronaca della peste del 1630. Dottore della Biblioteca Ambrosiana, famigliare del Cardinale Federico Borromeo, una sorta di segretario particolare, suo accompagnatore nelle visite pastorali e assistente negli studi. Real historico del governo spagnolo.Edgardo Franzosini così lo descrive: Riservato, introverso, suscettibile, con la precisa consapevolezza della propria superiorità intellettuale, arso dal fuoco dell'ambizione, doveva apparire, a coloro che lo avevano intorno..., una persona intrattabile, altezzosa…Subì diversi anni di carcere e un processo da parte del Sant'Uffizio per cause non ancora chiarite.

Il suo nome cadde nell'oblio per i due secoli seguenti fino alla riscoperta ad opera di Alessandro Manzoni, che utilizzò i suoi scritti come principale fonte storica del suo celebre romanzo. Dopo di che, il brillante studioso, ancora una volta, tornò nell'ombra.

Oggi tuttavia, uno scrittore erudito e curioso, quale Edgardo Franzosini, sulla scorta di una minuziosa disamina di documenti sei-ottocenteschi, lo riporta alla luce, con esiti sorprendenti, per quanto riguarda il processo subito da parte del Sant'Uffizio.

Numerose, vaghe, pretestuose le accuse. Avere alterato una sua stessa opera, dopo l'imprimatur, aggiungendo fra le altre cose narrative in disdoro di S.Agostino. Fuga dalle camere arcivescovili dove era detenuto. Aver negato l'immortalità dell'anima, l'esistenza dei demoni e perfino di Dio. Aver conversato con persone sospette: accusati dal Sant'Uffizio, maghi, e un tal poeta Franco Elli. Aver letto libri proibiti. Aver tentato di espatriare in Spagna; e ancora accuse di insubordinazione fino a quella gravissima di sodomia.

Il Ripamonti soffrì una lunga e dura carcerazione preventiva, come diremmo oggi; e venne sottoposto ad interrogatori che erano più volti a confermare le accuse che all'accertamento della verità. Il processo, a lungo sollecitato, anche dalle alte sfere ecclesiastiche romane, finalmente si fece e terminò con il perdono dell'imputato da parte del suo protettore, e datore di lavoro.

Questi, Federico Borromeo (1564-1631), cardinale e arcivescovo di Milano, esponente di spicco della Controriforma; cugino di S.Carlo Borromeo (1538-1584), suo modello spirituale, per gli atti di carità manifestati durante la carestia e la peste negli anni 1627/28 e 1630, di cui parla il Manzoni.

Grande protettore delle arti, fondò la Biblioteca pubblica Ambrosiana, una delle prime gratuite in Europa. Oltre un centinaio le sue opere, quasi tutte in latino.

Borromeo e Ripamonti, due uomini a loro modo eccezionali; due religiosi, accomunati dalla passione per il sapere e le belle lettere, latine in ispecie. L'uno di nobili ascendenze, venerato principe della Chiesa, prestigioso mecenate; l'altro, di umili origini, ma di spirito fiero, divenuto - in virtù della profondità del suo ingegno e del suo talento di letterato - autorevole dottore del Collegio della Biblioteca Ambrosiana, historico ufficiale del milanesado, secondo la lingua del dominatore spagnolo. Poi, improvvisamente, la caduta.

Una strana reticenza serpeggia in tutti i documenti, coevi e posteriori che citano il Ripamonti: ne celebrano i pregi, anche in toni encomiastici, ma tacciono o, solo con oscure circonvoluzioni, alludono, accennano, al fatto che un bel dì scomparve, né riapparì (uscito da un misterioso carcere) altro che alquanti anni dopo. Nonostante la lunghezza della detenzione e il clamore del processo, nei documenti della Biblioteca Ambrosiana si trova solo la notizia che il Ripamonti fu escluso e poi riammesso nel Collegio dei dottori. Lo stesso interessato una volta in libertà non fece mai cenno a' proprj casi.

Un altro indizio, misterioso, riguarda le sue doti di eccelso latinista: la facilità con cui nelle sue opere maneggiò sempre quell'aureo linguaggio fu la causa dei suoi guai.

Il mistero, secondo Franzosini viene svelato dal ritrovamento di due lettere di pugno dello stesso Ripamonti, considerate attendibili e, soprattutto, convincenti. Chi vorrà scoprire da sé il finale leggendo il libro dovrà fermarsi qui.

Svelamento del mistero

Nella cella del palazzo arcivescovile nella quale era detenuto Ripamonti, vennero trovate due lettere, una scritta in italiano e l'altra in latino, mai recapitate ai mittenti che restano sconosciuti.

In una erano riportate le dolorose cronache dei suoi interrogatori e della sua prigionia; nell'altra si diceva poco bene del cardinale Federigo. Lo storico ottocentesco che ne venne a conoscenza in un primo momento si limitò a riferirne il contenuto senza trascriverle.

In breve: le opere del Cardinale, stampate in pregiate edizioni, non erano opera sua, ma del Ripamonti che le correggeva e le traduceva nel suo elegante latino.

In questa missiva il cosiddetto protegé del Cardinale sfogava tutta la sua amarezza per questo sopruso durato anni, e causa della sua rovina. Per mettere a tacere le voci che cominciavano a circolare, il Cardinale aveva architettato quell'orrenda macchinazione. Persino quando il Ripamonti era prigioniero gli inviava "materiale da copiare" con la scusa di dargli qualche distrazione. Insomma, il sapiente storico e il raffinato latinista era fatto passare per il semplice copista del Cardinale.

La reticenza degli storici, e in qualche caso la negazione dell'evidenza, avevano il solo scopo di non macchiare la purissima reputazione dell'alto prelato, senza pietà alcuna per le sofferenze inflitte ad un innocente.

La lettura attenta dei documenti mostra che questa è assai probabilmente la verità, eppure ancora oggi di Federico Borromeo si lodano le numerose opere. Una casa editrice italiana, recentemente, ha pubblicato col suo nome il De peste, cronaca dell'epidemia di Milano del 1630, indubitabilmente scritta dal Ripamonti e correttamente attribuita in altre edizioni.

Agli scrittori celati da uno o più pseudonimi, o che creano eteronimi; a quelli che lavorano per incidere il proprio nome autentico su opere immortali, bisogna aggiungere coloro che, forti della loro posizione di potere, sostituiscono il proprio su libri scritti da altri.

A distanza di quattro secoli sembra proprio essere giunto il tempo di fare giustizia.